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Rischio climatico tra obblighi, vantaggi, attori pubblici e privati: una sofferenza necessaria

Lo standard obbligatorio E1 della direttiva sulla Rendicontazione di Sostenibilità Europea prevede l’analisi dell’esposizione delle aziende ai rischi legati al cambiamento climatico e alla transizione ecologica. Sarà una pratica complicata da gestire ma renderà indietro preziose informazioni.

Chi veramente ne avrebbe bisogno sono le PMI, ma al momento mancano competenze, finanziamenti ed azioni concrete da parte dello Stato.



È presente, all’interno della normativa che regola la Dichiarazione Non Finanziaria, una chiara indicazione sulla valutazione e la pianificazione dei rischi relativi al cambiamento climatico e all’impatto dei processi di transizione ecologica.



Espresso in questa maniera, sembra semplicemente la solita indicazione teorica complessa, difficoltosa e quindi, se non obbligatoria, ben volentieri ignorabile dalle organizzazioni, pubbliche e private. Il punto è che, secondo noi, non è questo il caso.


Come tutte le analisi di questa tipologia, ci sono diversi livelli di complessità e profondità, a seconda dell’attività, delle dimensioni e della localizzazione delle organizzazioni. Avere però un’idea dell’esposizione al rischio sia del building di un’attività che della propria Catena del Valore è una informazione che rivestirà sempre più importanza e potrebbe far la differenza nella competizione tra organizzazioni.


La necessità di effettuare questo tipo di valutazioni non è solo presente all’interno della Corporate Sustainability Reporting Directive dell’Unione Europea, che è solo una conseguenza dei continui richiami della comunità scientifica, ma come si può leggere anche dal report AR6 dell’IPCC (https://www.ipcc.ch/assessment-report/ar6/), i modelli climatici ed ecologici indicano chiaramente un aumento dei livelli di rischio che riguardano tutta la popolazione globale e, di conseguenza, le catene del valore e la business continuity.


Ad esempio, un’analisi preventiva dei rischi dovuti a fenomeni meteorologici estremi avrebbe potuto aiutare diverse aziende Romagnole o Toscana mitigare gli effetti delle disastrose alluvioni avvenute negli ultimi mesi. Sembra sempre facile col “senno del poi”, ma in realtà le questioni ambientali sono sempre difficili, se affrontate con serietà; occorrono specifiche competenze per effettuare analisi di rischio ambientale, che uniscono sia l’ambito scientifico che quello imprenditoriale.

Il fatto che sia complicato, però, non rende meno veritiero il fatto che le aziende alluvionate, se informate prima del rischio derivante dagli eventi estremi, forse non avrebbero subito tutto l’ammontare del danno che poi si è verificato.


È infatti impensabile riversare la colpa esclusivamente sulla manutenzione territoriale di argini e canali, in quanto architetture non pensate e preparate per gli eventi meteorologici che stiamo sperimentando e che non potranno fare altro che intensificarsi. Uno dei vulnus della questione è proprio questo: l’analisi del Rischio sul cambiamento climatico riguarda sia l’ambito pubblico che quello privato ad ogni livello. Dal comune alla Comunità Europea, fino ai rapporti commerciali intercontinentali, dal piccolo artigiano alla multinazionale. Da una parte l’adattamento della pubblica infrastruttura territoriale nel prevenire, dall’altra le singole aziende che, nella loro esclusività, dovrebbero cercare di porre in atto azioni di mitigazione del rischio

Purtroppo ci è stato dimostrato chiaramente, e comunque è facilmente intuibile, che lo stato nazionale fatica a trovare i fondi e volontà per compensare quelle che non sono più emergenze, ma situazioni strutturali derivanti dal nostro areale climatico e geologico

Un autarchico esempio di rischio ignorato


È ormai chiaro da tutti i modelli climatici disponibili che la zona Mediterranea sarà soggetta, ed è soggetta già da ora, ad una tendenza composta da un progressivo inaridimento e/ o desertificazione del territorio, accompagnata da un’intensificazione dei volumi di pioggia dei singoli eventi meteorologici, con una buona possibilità che le tempeste classificabili come topicali o sub-tropicali diventino più frequenti.

Ciò si traduce, nel pratico, da crisi idriche come quelle che accompagnano sempre più spesso i periodi primaverili ed estivi, con nubifragi molto violenti e pericolosi, localizzati,

discontinui.


La componente pubblica dello Stato dovrebbe intervenire quindi sulle opere territoriali, costruite e mantenute nei secoli secondo le necessità climatiche, cambiando completamente il paradigma: non più un regime delle acque da paese temperato, ma da paese tropicale. Sarà necessità riuscire a mitigare i danni delle piogge violente trattenendole al contempo sul territorio, senza permetterne il libero deflusso al mare, in modo da poterle sfruttare nei periodi siccitosi.


Il tutto da fare in sintonia con una messa in sicurezza generalizzata di crinali e versanti, sempre più soggetti a degradazione meteorica e frane. Si tratta di miliardi e miliardi di Euro di investimenti, nonché probabilmente l’imposizione del pubblico interesse verso quello di molti privati; inevitabile ma che genererà ulteriore conflitto sociale. Bisognerà ad esempio rivedere il funzionamento e la disposizione delle dighe, che al momento regimentano quasi il 90% dei corsi d’acqua ma che non possono rispondere alle nuove esigenze, creando quindi un rischio anche verso il processo di transizione climatica, che richiede anche energia idroelettrica per essere portato a termine.


Complicato, vero? E stiamo parlando di un singolo aspetto delle centinaia di mutamenti e pericoli che l’umanità si è creata e ora deve gestire. 


Parlando delle aziende e del loro ruolo, sarebbe già più che sufficiente se fossero in grado di non subire i danni devastanti che in tante regioni si sono verificati e che hanno condizionato pesantemente il tessuto produttivo locale, col rischio di un impoverimento della popolazione. Per esserne in grado, occorre innanzitutto che le organizzazioni siano informate ed educate per l’appunto sui cambiamenti che il contesto ambientale globale in cui operano, sia quelli già in corso che quelli previsti. Andando un poco oltre al proprio territorio, è potenzialmente game-changer conoscere a fondo l’esposizione al rischio delle catene di fornitura.


Altro esempio pratico, parlando di catene di fornitura globali, è quello del Bangladesh, che benché soggetto da sempre a clima monsonico ha una resilienza che gli ha sempre permesso di essere un esportatore chiave di tessuti durante tutto l’anno. Quest’anno, con un terzo del paese allagato, le catene di fornitura del tessile hanno dovuto essere rallentate o interrotte; nello scegliere un fornitore chiave di materia prima in paesi tropicali, ad esempio, si dovrebbe considerare il luogo in cui opera e la solidità dei collegamenti che ha dalla sede al resto del mondo.

È lungo, dispendioso e complicato sono d’accordo, ma non è inutile; se sembra che, ad oggi, le aree del mondo soggette ad alto rischio siano ancora limitate e i danni non siano poi così impattanti, anno dopo anno il cambiamento climatico si intensifica e, insieme alle migrazioni che genererà, sarà il driver fondamentale sia dell’economia che degli equilibri sociali, nell’augurio che non si generino situazioni ancora più critiche.

Effettuare studi di impatti, rischi e opportunità potenziali derivanti dai processi di transizione ecologica e dal cambiamento climatico è quindi complesso, ma potrebbe essere uno strumento essenziale nella pianificazione delle attività e degli sviluppi aziendali nel prossimo decennio.

Quindi, come mettere a terra una analisi di questo tipo?

Occorre innanzitutto distinguere i due argomenti tra loro, benché collegate concettualmente, le due valutazioni del rischio hanno modalità di esecuzione diverse.


Esposizione al cambiamento climatico


Uno studio di questo tipo, effettuato con le modalità della Margotta Consulting prevede un potenziamento dell’Analisi Ambientale Iniziale ispirato al framework di lavoro ispirato alla norma UNI EN ISO 14001:2015, considerando elementi geologici, topografici e la

pianificazione territoriale strategica della Regione per quell’area.


A questa prima analisi, occorre aggiungere la bibliografia di enti riconosciuti come ISPRA, che analizzano le caratteristiche di sensibilità territoriale.


L’utilizzo di strumenti informatici come GIS e lo studio di prospetti climatici di alto livello completano poi l’analisi del quadro dei rischi legati al cambiamento climatico.

È chiaro che l’inclusione nella valutazione della sensibilità della catena del valore è un passaggio aggiuntivo e richiede, innanzi tutto, la capacità dell’organizzazione di richiedere i dati necessari ai propri fornitori.


Oltre alle modalità sopra descritte e utilizzate in una forma più sintetica, è evidente la necessità di includere in un’analisi sulla Catena del Valore anche gli aspetti logistici.


Esposizione alla transizione ecologica


È il rischio operativo per le aziende di non essere in grado di gestire gli obblighi e i vincoli legati al Green Deal Europeo, cioè la Commissione vuole conoscere quanto le aziende percepiscano come pericolose le misure che la commissione stessa sta adottando con le proprie misure, non per abbandonarle ma per calibrarle sul tessuto economico.


Margotta Consulting ha già trattato a fondo l'argomento in un post dedicato


Certamente le modalità di gestione del processo da parte della Comunità Europea e dei vari governi nazionali sono opinabili e sicuramente non ottimali, ma che la direzione fosse quella l’avevano capito anche i muri nel 2015. E anche i muri negazionisti della causa umana del cambiamento climatico.


In realtà, recriminare serve a ben poco anche perché i legislatori hanno emanato numerosi obblighi senza mettere a disposizione gli strumenti per soddisfarli, riversando il tutto sulle organizzazioni.


Come azienda specializzata nel settore della sostenibilità ESG, Margotta ha un framework derivato dal Pacchetto Sostenibilità PMI che è in grado innanzitutto di fare un assesment delle risorse, deli macchinari e dei processi organizzativi dei propri clienti secondo quelle che sono le indicazioni programmatiche contenuti nei documenti europei e negli accordi internazionali, prima che vengano emanati decreti attuativi.


L’assesment comprende, ad esempio, una valutazione di quanta quota del business dipenda dalla disponibilità di risorse naturali, dalla salute delle comunità locali dal punto di vista ambientale e altre variabili non legate strettamente al core business.


Un pensiero alla business continuity


La sintesi del discorso è che questo tipo di analisi e studi sono complessi ed impegnativi, eppure sono stati inseriti tra le categorie che saranno obbligatorie nella rendicontazione di sostenibilità nell’ambito della Dichiarazione Non Finanziaria.


Ne consegue che sempre più organizzazioni richiederanno il know-how per svolgerle, il che si traduce in spese. Come in spese si tradurranno anche i costi per rendicontare i risultati di analisi e studi di questo tipo, o le ore interne necessarie per la raccolta delle informazioni.


Nonostante tutto le organizzazioni più grandi e preparate eseguono questo tipo di valutazione dei rischi già in autonomia, in quanto, per organizzazioni complesse, è un tema già considerato in ottica di solidità del business. Molte delle organizzazioni che saranno soggette alla DNF hanno quindi molti degli strumenti per affrontare l’onere della prova e, al contempo,

ricavare informazioni che diventano più

cruciali ogni giorno.


Chi veramente si trova scoperto sia dal punto di vista della competenza per affrontare le questioni di sostenibilità ambientale sia da quello della capacità di affrontare i danni derivanti da eventi ambientali estremi sono le Piccole e medie imprese, in particolar modo la manifattura Italiana, come dimostrato anche dalle varie frane, inondazioni, tempeste ventose, grandinate, eventi siccitosi ecc. che sono, ad oggi, la normalità climatica.


Se la pubblica amministrazione, attraverso strumenti di finanza agevolata un po’ più ragionati di quelli di oggi e un comportamento più coerente verso i fatti scientifici, riuscirà a permettere che le tematiche di sostenibilità ambientale entrino nelle PMI in maniera organica e a livello di leadership, la continuità produttiva di intere zone geografiche del nostro paese sarà più tutelata dagli effetti di un cambiamento che contribuirà, al contempo, a rallentare.

Ci troveremo, altrimenti, nella condizione che già oggi continuiamo ad osservare di una continua rincorsa ai fondi post emergenziali, con attività ferme in attesa dei fondi stessi, spesso con infrastrutture compromesse; se consideriamo che i fondi presenti in manovra finanziaria per il 2024 e destinati al dissesto idrogeologico sono già praticamente terminati con le ricostruzioni previste in Romagna e Toscana, è chiaro che questa è una questione di business continuity nazionale, non del singolo imprenditore.


Chiudendo con un’immagine più visuale, la rendicontazione del rischio climatico sta alla sostenibilità come l’esame della prostata sta alla prevenzione medica: non lo vogliamo fare, non ci piace farlo, ma potrebbe allungarci la vita di mezzo secolo.







Luca Pollarini

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