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Utilità, sofferenze e opportunità – la sostenibilità nella Catena del Valore

Gli obblighi di rendicontazione di sostenibilità relative alle grosse imprese contengono al loro interno chiari riferimenti alla catena del valore, che dovrà essere in grado di fornire quindi le informazioni ai loro clienti.

Sulla sostenibilità, le PMI italiane si sono fatte trovare impreparate e disinteressate, ora sarebbe meglio iniziare ad agire


Mappa circuito come catena del valore globale

Un approccio che spesso, lavorando come figure tecniche, si tende ad avere è quello di valutare la normativa cogente e volontaria in sé stessa, invece di guardare alla prospettiva generale.


Certo, quando si parla di legge la parte più importante è farsi trovare coperti e in ordine, mentre per le norme volontarie il focus è quello di superare l’audit e ottenere la certificazione. Spesso si mettono in atto quei miglioramenti che, senza sforzi eccessivi, permettono una maggior conformità dei processi a quelli che sono i requisiti dello standard e ciò è già sufficiente.


Il discorso cambia quando si parla di sostenibilità aziendale. Senza uno sguardo prospettico che parta dalle politiche di Tokio, Rio, dagli accordi di Parigi e da tutte quelle tappe che in sé stesse sono state poco efficaci (vedi COP 28), ma che nel loro insieme hanno creato le fondamenta e la consapevolezza politica di oggi, gli obblighi e le richieste legislative possono essere solo vissute come fatiche ulteriori, gli ennesimi obblighi da affrontare uno alla volta, senza realizzare che la fine del percorso è già stata indicata da anni.


Se invece si guardano le dichiarazioni di intenti e i testi dei trattati (o anche solo il testo delle leggi Europee più significative), si capisce come la materia vada affrontata, per essere gestita e non subita, in senso generale e attraverso una pianificazione di sostenibilità generale considerando tutti e 4 i pilastri della sostenibilità: Economica, Ambientale, Sociale e Gestionale.


Certo, molti non sono contenti di questa inaspettata coerenza politica, ma se si guarda leggermente fuori dal proprio portafogli, anche l’imprenditore meno convinto del cambiamento climatico capisce facilmente che l’aria sta cambiando, e che sia i cittadini che il legislatore iniziano a richiedere -e pretendere- un nuovo approccio.

Si capisce anche, leggendo tra le righe, il senso vero della Dichiarazione Non Finanziaria imposta alle grandi organizzazioni europee già dal 2025 (sul 2024), cioè di sfruttare le leggi del mercato per imporre anche alla piccola e media impresa la necessità di sviluppare progetti e raccogliere dati sugli impatti. Ponendo l’obbligo alla fine, non c’è necessità di vincolare altre aziende dal punto di vista normativo.

In particolare, si capisce bene il perché dell’imposizione, nell’ambito della DNF, della rendicontazione degli impatti della catena del valore. Senza questa imposizione, non solo non si sarebbe potuto avere un bilancio realistico degli impatti, ma grazie ad essa si inizia ad agire sulle PMI attraverso i loro clienti, invece che con una imposizione politica diretta. Direi che il messaggio è chiaro: al momento saranno i vostri clienti a chiedervi i dati e le informazioni relative alla sostenibilità, un domani saremo noi.


Se infatti le grandi organizzazioni dovranno rendere pubblici i loro impatti, inizialmente forzeranno le PMI intanto a iniziare ad avere dimestichezza con la materia, poi ad interessarsene per mantenere il cliente. Ma quando dopo un anno o due i grossi gruppi dovranno iniziare ad applicare i loro piani di miglioramento, un grosso taglio degli impatti può essere fatto esclusivamente attraverso una selezione dei fornitori anche sulla base degli aspetti di sostenibilità. A questo punto le imprese della catena del valore non solo dovranno monitorare i loro impatti, ma dovranno anche attivarsi per la loro riduzione.


In questo modo, si ottiene un generale miglioramento senza dover forzare con scadenze e temini di legge aziende che hanno pochi strumenti e risorse per attivare internamente o esternalizzare le competenze necessarie.


Ne deriva che, invece, le PMI che hanno risorse possono quindi avvantaggiarsi impostando già da ora quel miglioramento che, fra un anno o due, sarà condizione minima per poter lavorare coi grossi gruppi più esposti mediaticamente; mai come su questa tematica, non serve rincorrere e il cambiamento ma cavalcarlo, anche perché resistervi è non solo impossibile ma anche masochista, visto che l’imprenditore è parte della società e della specie umana, e qui si parla di ridurre impatti negativi su noi stessi.


Se poi si può migliorare avendo un vantaggio commerciale, conviene operarsi per iniziare un percorso di sostenibilità che sappia valorizzare l’organizzazione e essere assorbito sia culturalmente che economicamente nei tempi giusti.

Con cambio culturale, intendo proprio che la sostenibilità non può essere affrontata aspettando che vengano emanati nuovi obblighi, per poi gestire il singolo punto, continuando poi ad operare come prima. Per due motivi importanti:


  • Gestire un obbligo di sostenibilità implica applicare una rendicontazione che sia strutturata e continui ad operare nel tempo. È chiaro che sovrapporre queste strutture ad un’attività operativa invariata diventa un costo sia in termini economici che temporali, per l’organizzazione, cioè il contrario di quello che dovrebbe essere sostenibile.

 

  • In secondo luogo, attendere fino all’ultimo l’obbligo del legislatore o le richieste del cliente significa, per l’imprenditore, sempre nuove urgenze, nuovi consulenti e nuova formazione, con poca possibilità di qualifica dei professionisti ai quali deve affidarsi ed un ingolfamento delle figure tecniche interne.


L’approccio più funzionale e corretto è quello di richiedere un’accurata programmazione che sappia, in maniera organizzata e organica, rendere l’organizzazione nel tempo sempre più aderente a quelle necessità ambientali, sociali e di trasparenza che sono state da tempo annunciate. Ciò significa che i vari aspetti devono essere integrabili tra loro nei sistemi documentali così come lo sono nella realtà.


Anche perché l’implementazione del Green Deal sta procedendo esattamente con le tappe previste, quindi se oggi si inizia a richiedere alle aziende (e di rimando ai loro fornitori) la misurazione delle emissioni di CO2, fra un paio d’anni sarà la Water Footprint, poi la rendicontazione del piano di neutralità.


Se oggi è equità salariale, domani saranno politiche di welfare e azioni sul diritto umano nelle catene del valore, se oggi è processo di approvvigionamento sostenibile, domani sarà flessibilità di governance.


Questo non dovrebbe spaventare o essere vissuto come una ingerenza nel business, innanzitutto perché, quando si tratta di preservare ciò che ci permettere di perdurare come civiltà, ogni intromissione è non solo doverosa ma, a questo punto, anche tardiva. Poi un cambio di contesto culturale e nel paradigma del lavoro, se correttamente governato, non solo non mette a rischio la business continuity, ma anzi rappresenta una grande opportunità per le imprese più veloci e pronte al cambiamento.

Anche perchè gli standard di riferimento della sostenibilità sono scritti proprio per migliorare le organizzazioni, non per danneggiarle: è la resistenza al cambiamento che crea i veri problemi alle imprese.

La gestione dei rischi e delle opportunità di questo contesto, per le PMI, richiede quindi un cambio di prospettiva. Come mi faceva notare un imprenditore durante un incontro sulla sostenibilità “Se 10 anni fa fossi andato nelle aziende a dire di fare pianificazione finanziaria, si sarebbero messi a ridere. Oggi è un’attività fondamentale. Allo stesso modo la pianificazione degli interventi sugli aspetti di sostenibilità sarà fondamentale per continuare ad operare”.


Per poter effettuare una pianificazione di questo tipo, ci sono però degli step di consapevolezza da fare:

Mano che tine bussola, capire la direzione

  • Capire cosa il legislatore chiede ai nostri clienti


  • Capire in che situazione siamo noi


  • Formulare chiaramente dove si vuole arrivare


Innanzitutto, quindi, non farsi trovare scoperti sui dati quantitativi e qualitativi che le organizzazioni sottoposte ad obblighi di rendicontazione potrebbero richiedere nei processi di qualifica, che riguardano a loro volta diversi aspetti sia ambientali che sociali.


Questa consapevolezza sulla situazione aziendale non dovrebbe rimanere sterile ed utilizzata semplicemente per le qualifiche perché esse cambieranno; si passera dal richiedere il dato grezzo alla richiesta di informazioni sulle modalità di miglioramento di quel numero. Servirà accompagnare alle valutazioni e agli assesment anche una pianificazione strategica e organizzativa.



Tramite un monitoraggio quantitativo e l’implementazione di misure economicamente sostenibili e pianificate con un’ottica strategica, l’organizzazione dovrebbe mirare a trovarsi, a distanza di qualche anno dall’inizio del percorso, ad operare in maniera conforme non solo alla situazione legislativa del momento, ma anche a quella a venire. In questo modo, non solo si possono soddisfare le richieste di quei clienti che necessitano di fornitori qualificati da questo punto di vista, ma l’organizzazione stessa potrà beneficiare di quelle possibilità operative e gestionali derivanti da una sostenibilità pienamente integrata nei processi operativi.


Su come vada impostato un piano di miglioramento o su quali aspetti siano più prioritari, purtroppo dipende tutto dall’azienda e dal professionista che si trova a far la consulenza. Invito anzi a diffidare di tutte le guide o i percorsi prestrutturati e standardizzati; la sostenibilità deve essere flessibili e personalizzata per ogni realtà.


Pianta che cresce e matura soldi

Il framework di Margotta Consulting per le PMI si concentra proprio su questi tre punti: raccolta dei dati minimi, assesment generalizzato e pianificazione concreta ed economicamente sostenibile.


 







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Luca Pollarini

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