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Net 0 CO2, ma non solo CO2 – non nascondiamoci dietro ad un dito

Il tema del cambiamento climatico è sulla cresta dell’onda da anni, ma solo da poco le organizzazioni hanno iniziato a valutare la propria impronta di carbonio, tra incapacità, scarsa dedizione e poca trasparenza.




Un concetto che poco spesso si tende a far passare, non solamente nell’ambiente organizzativo o consulenziale ma anche nei media e nella divulgazione più generalista, è quello della complessità e della profonda interazione che le componenti globali hanno l’una con l’altra, in particolare quando si parla di ambiente.

Non che per spiegare l’ecologia globale sia sufficiente incrementare la complessità dell’informazione divulgata, in effetti è più materia di corsi universitari specialistici.


Quindi qual è la cultura base sui temi ambientali che servirebbe per avanzare in termini di sostenibilità generale?

E quale invece la conoscenza che faciliterebbe le aziende nello sviluppo verso un mercato e un’economia decarbonizzata e ambientalmente più sostenibile, come peraltro è nelle intenzioni dei legislatori?


Per un’organizzazione che intende intraprendere la sostenibilità, risulta fondamentale non tanto una approfondita conoscenza tecnica -ci sono i consulenti, per quello-, ma un’ottica generale del tema, di come potrebbe essere declinato all’interno della realtà organizzativa e, più o meno, qual è il target verosimile al quale si vuole tendere.

Un esempio lampante di scarsa preparazione da parte del management e, spesso anche dei consulenti, riciclati da altri ambiti, è quello del cambiamento climatico e dei Gas ad Effetto Serra.

A dirlo sembra quasi paradossale, essendo che il cambiamento climatico è una realtà sulla quale da più di trent’anni si dibatte tra gli scienziati e i lobbisti dei grandi inquinatori (si veda anche la COP28 in corso), con centinaia se non migliaia di riferimenti alla problematica presenti in giornali, televisioni e su internet.


Non più di due anni fa giovani e giovanissimi riempivano le strade delle grandi città, di venerdì, per protestare sull’insipienza delle politiche sul cambiamento climatico e la riduzione dell’uso di combustibili fossili.


Eppure, è evidente che, benché continuamente in primo piano, chi effettivamente dovrebbe implementare in azienda delle politiche e dei piani di riduzione, non sa neppure di cosa sta parlando.


Il tema dei Gas ad Effetto Serra, in inglese GreenHouse Gasses GHG, principale ma non unico aspetto ambientale legato al Cambiamento Climatico, è sicuramente al centro sia della divulgazione generalista che degli schemi di certificazione che si stanno diffondendo nel modo imprenditoriale su pressione del legislatore (vedi ISO 14064-1 o 14067).


Rimane però complicato chiarire agli imprenditori e referenti interni in cosa consistano effettivamente i Gas ad Effetto Serra, che cosa sono, quali siano, e che differenza c’è tra CO2e CO2 equivalente, a cosa, nel concreto, corrispondano le categorie di emissione ecc.


Benché online la bibliografia sul Climate Change è praticamente infinita e di prontuari già ne esistono, a mia volta cercherò di contribuire nello spiegare la tematica nel modo più scientifico e accurato che mi riuscirà.


Cosa sono i Gas ad Effetto Serra?


In estrema sintesi: gas che, dispersi in atmosfera, riducono la dispersione di calore dalla Terra, portando ad un progressivo riscaldamento della superficie.

Direi che, fin qui, è abbastanza chiaro, se lasciamo stare il come lo fanno, che richiederebbe un articolo a parte sulla fisica dell’atmosfera e la fotochimica dei gas.

I gas ad effetto serra più comuni e diffusi, e quindi considerati dalle normative cogenti e volontarie, sono:


  • Anidride Carbonica (formula chimica CO2): il più comune tra quelli emessi dalle attività umane, in particolare la combustione di fonti di energia fossile; in pratica stiamo tirando fuori il carbonio stoccato in milioni di anni dalla Terra nel sottosuolo per rimetterlo in circolazione, sommandolo a quello naturalmente presente in atmosfera.


  • Metano (formula chimica CH4): Gas che emettiamo in grandi quantità in atmosfera, con una vita media inferiore rispetto all’anidride carbonica ma con un potere di riscaldamento 27 volte più alto. Le emissioni da metano di origine umana derivano soprattutto dai processi estrattivi e dalle fughe di gas, alle quali praticamente tutti gli impianti sono soggetti.


  • Protossido d’Azoto (formula chimica N2O): uno dei tanti gas della famiglia degli ossidi di azoto, è una emissione presente in praticamente tutti i processi di combustione. Si forma quando la combustione riscalda l’Azoto presente in atmosfera (N2), facendo in modo che si leghi con l’ossigeno, formando un inquinante dall’elevato potere di riscaldamento. È anche visibile ad occhio nudo: quella nebbiolina gialla che circonda le autostrade da lontano è composta sostanzialmente da ossidi di azoto.


  • Trifluoruro d’azoto (formula NF3): è un gas inquinante in rapida ascesa nella concentrazione in atmosfera, viene utilizzato soprattutto per tagli al plasma, e viene emesso soprattutto dai processi di produzione di memorie per computer e schermi piatti. Ha un potere di riscaldamento atmosferico (potenziale di gas effetto serra) 17'200 volte più alto di quello dell’anidride carbonica.


  • Esafluoruro di zolfo (formula SF6): è un gas utilizzato in moltissime applicazioni industriali, ma il cui impiego è anche fortemente regolamentato, almeno in Europa, in quanto ha un potere di riscaldamento globale ancora più alto rispetto al trifluoruro d’azoto, con un valore di 24'000 volte quello dell’anidride carbonica.


  • Idrofluorocarburi & Perfluorocarburi (formule generiche HFC e PFC): in questo caso si parla di famiglie di gas, non di singole specie chimiche, perché sarebbero moltissime da elencare. Sono sostanze principalmente utilizzate come gas refrigeranti in apparecchi frigoriferi, sia mobili (es celle frigorifere su camion) che per la climatizzazione degli edifici. Si trovano, banalmente, sia nel frigorifero di casa che nei grandi magazzini delle catene del freddo. Hanno tutti elevatissimo potere di gas effetto serra, decine di migliaia di volte più alti rispetto all’anidride carbonica.

Come si inseriscono i GHG in inventario?


Partendo dall’elenco dei Gas ad Effetto Serra, come indizi sulla formulazione di un inventario GHG, si dovrebbero notare due caratteristiche fondamentali:


1. Tutti i valori riferiti al potenziale di riscaldamento sono espressi in riferimento all’anidride carbonica


2. Metà dei gas effetto serra derivano da processi di combustione o dal trasporto fino alla combustione, mentre l’altra metà derivano da processi produttivi o applicazioni tecnologiche


Partiamo dal primo punto: la comunità scientifica prima e tutto il mondo normativo di conseguenza, hanno definito come unità (=1) di gas effetto serra il potere di riscaldamento di una singola quantità di CO2. In questo modo, agli altri gas può essere assegnato un valore di riferimento rispetto a quello dell’anidride carbonica; è da qui che deriva l’unità di misura utilizzata negli inventari di GHG, cioè la CO2 equivalente.


Uno dei temi che spesso mi trovo a dover chiarire infatti è questo: le emissioni di CO2 sono diverse dalle emissioni di CO2 equivalente. Le emissioni di CO2 sono quelle di anidride carbonica vera e propria, mentre le emissioni di CO2 equivalente sono il risultato della moltiplicazione tra la quantità di gas emessa ed il suo potere di riscaldamento rispetto alla CO2.


Comprendo che sia complicato, ma ogni approfondimento ulteriore aggiungerebbe solo complessità all’argomento; quello che deve rimanere è che in un inventario di GHG occorre riportare sia le emissioni di CO2 che quelle di CO2 equivalente perché, ribadisco, non sono la stessa cosa.


Secondo punto: l’origine dell’emissione può essere differente, e in base all’origine possono cambiare anche i gas stessi dell’emissione. Processi di combustione non potranno mai emettere HFC, mentre invece processi industriali potrebbero coinvolgere tutto lo spettro dei GHG.

Risulta quindi fondamentale uno studio dei processi per capire quali Gas ad Effetto serra vengano immessi in atmosfera, non limitandosi a guardare caldaie e bollette di energia elettrica.


Allo stesso modo, occorre distinguere tra le emissioni indirette ed indirette e i Gas ad Effetto Serra corrispondenti.


Il vulnus della questione: emissioni dirette ed indirette


Per esperienza, quasi tutte le organizzazioni producono inventari di GHG che, benché rigorosamente impaginati e con un sacco di chiacchiere per richiamare il testo della norma, essenzialmente dal punto di vista scientifico non hanno nessun valore.

Mi spiego meglio: quando si parla di emissioni dirette o derivanti dall’energia elettrica, essenzialmente tutti i consulenti sanno più o meno dove mettere le mani e come.

Quando invece si passa alle emissioni indirette, che da bibliografia sono quelle che, solitamente, racchiudono tra il 60 e il 90% delle emissioni, scoppia il panico.


Vuoi per la raccolta dati, vuoi per le difficoltà tecniche o, più probabilmente, perché c’è ignoranza sul tema, quando si tratta di emissioni da merci acquistate, da telelavoro o derivanti dal comparto informatico gli inventari sono quasi sempre tecnicamente inadeguati, sia dal punto di vista dei contenuti, che della classificazione che dei calcoli.

Mi viene anzi da accogliere con calore le decisioni dei principali enti di certificazione di pretendere che anche le categorie indirette vengano rendicontate con precisione.


D’altra parte, se sto scrivendo articolo e documento di sintesi un motivo c’è, ed è quello di tentare di fare chiarezza e fornire qualche strumento in più per la scelta dei professionisti ai quali affidare le commesse relative alla UNI EN ISO 14064-1:2018.


Di base, dopo aver compreso in cosa consistono i gas ad effetto serra e alcune delle modalità di emissione, attraverso la categorizzazione ISO cercherò di spiegare in parole cosa si intende per fonti dirette ed indirette.


Vi risparmio le sottocategorie di emissione, ma dovreste pretendere dai vostri consulenti una spiegazione chiara a riguardo.


Le emissioni di GHG devono essere divise secondo:


  • Categoria I: emissioni da combustioni mobili e stazionarie, si intendono quindi le emissioni da caldaie, camion, auto aziendali. È importante che vengano incluse anche le emissioni fuggitive da impianto (occhio alle manutenzioni) e quelle derivanti da eventuali processi di fabbricazione o altre attività.


  • Categoria II: la seconda categoria di emissione è quella relativa all’energia; che non è solo quella elettrica. E non è solo quella effettivamente consumata. La categoria deve includere ogni tipo di energia importata, le perdite di rete e sarebbe meglio una differenziazione in base al mix energetico.


  • Categoria III: qui iniziano i guai. In realtà, ad approfondire, sarebbero iniziati già dalle prime categorie, ma qui sono quasi inevitabili. La categoria III parla di spostamenti: di persone e di merci. Si considerano i dipendenti, i collaboratori, i terzisti, i clienti. Qui andrebbero anche le emissioni relative ad altre attività correlati agli spostamenti.


  • Categoria IV: questa è la categoria che un consulente scarso evita addirittura di inserire negli inventari, eppure è quella dove risiedono la maggior parte delle emissioni. Sono le emissioni da merce acquistata, cioè: le emissioni derivanti da una mezza dozzina di sottocategorie, che dovrebbe includere calcoli del ciclo di vita dei beni di investimento, le emissioni derivanti dallo spostamento di combustibili ed energia prima di arrivare in azienda, il fine vita dei rifiuti, la carbon footprint, almeno approssimativa, delle materie prime. Capite bene che un non specialista qui piange, così come capirete la mia speranza di vederne piangere molti, con una maggior richiesta da parte di chi certifica e del legislatore.


  • Categoria V: sono le emissioni che deriveranno dall’utilizzo dei nostri prodotti, comprendendo quindi il loro utilizzo e smaltimento. È un’altra categoria di emissione che qualsiasi azienda ipocrita (al posto del consulente inetto), vorrebbe escludere dagli inventari. Immaginate solo una casa automobilistica che rendiconta come proprie le emissioni per tutta la durata della vita utile delle automobili che produce. Eppure è così che dovrebbe funzionare.

Excusatio non petita...


Posso capire che quello che scrivo possa sembrare come qualcuno che spera di vedere le aziende messe in crisi dalle normative o di guadagnare di più perché gli standard sempre più elevati manderanno fuori mercato consulenti riciclati da altri temi aziendali, ma la realtà è diversa:

Io ci credo in quello che faccio. Le emissioni di CO2 sono un problema che va affrontato senza ipocrisia e senza vergogna: un inventario GHG ben fatto sarà molto più alto che uno parziale, eppure è molto più virtuoso, in quanto permette davvero di ridurre le emissioni e fornisce a chi studia questi temi a livello di ricerca di accedere a dati più completi ed esatti, per il bene di tutti.


E dal punto di vista dell’immagine, i consumatori ed il legislatore sono sempre più educati a riconoscere informazioni incomplete e il greenwashing, quindi non ha senso trasformare una questione seria come il cambiamento climatico in una vetrina nella quale l’organizzazione più “magra” vince. Le organizzazioni più mature e consapevoli vinceranno in questo caso.


Comunque, il mio ultimo consiglio è di valutare le “red flags” che permetteranno di riconoscere chi comprende il tema e chi ha semplicemente letto il testo della norma:


  • Pretendete che ogni sottocategoria riporti la quota biogenica, cioè le quote di emissioni derivanti dalle porzioni di biomassa di miscele e mix energetici. Sarà uno dei temi chiave della legislazione dei prossimi anni


  • In inventario occorre riportare gli upstreams, cioè le quote di emissioni avute prima che i beni energetici siano utilizzati dall’organizzazione


  • La categoria IV non può essere non significativa, secondo tutta la letteratura e bibliografia relativa alla materia, è proprio impossibile che lo sia


  • Il piano di miglioramento deve essere vero e strutturato, in quanto ora esiste una normativa precisa e definitiva anche per i piani di miglioramento sia della raccolta dati che della performance climatica.

Concludo con la speranza di vedere sempre più trasparenza, comprensione e maturità sul tema, in modo da iniziare a distinguere seriamente tra chi si trova nella condizione di non potere da chi non vuole.






Luca Pollarini

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